LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO

"TU PUOI SAPERE. NON E' UN CASO"

pagina creata il 22 settembre 2007, aggiornata il 22 settembre 2011

 

 

Vieni da "Riforma dell'intelletto" in Spinoza o da altre pagine dove si critica la procedura scolastica della presentazione di casi clinici per confermare la dottrina psicanalitica, inculcata dagli anziani nel giovane analizzante durante la cosiddetta "formazione".

Sei in una pagina che tratta criticamente il concetto di "caso clinico".

Vuoi andare all'aggiornamento?

E' ben nota la lamentazione di Freud a conclusione del caso clinico di Elisabeth von R... negli Studi sull'isteria:

“Non sono sempre stato uno psicoterapeuta. Come tanti altri neuropatologi mi sono formato su diagnosi locali e prognosi elettriche e propriamente mi colpisce che le storie cliniche da me scritte si leggano come novelle, carenti come sono, per così dire, del marchio della serietà scientifica.” (S. Freud, “Studi sull’isteria” (1895), in Sigmund Freud Gesammelte Werke, Fischer, Frankfurt a.M. 1999, p. 277 ).

Freud rimane fondamentalmente un romanziere. Il suo capolavoro, abbandonate finalmente le pretese scientifiche, è L'uomo Mosè e il monoteismo (1938). E' un romanzo scritto decostruendo il romanzo. Arrivato in fin di vita, Freud opera come i grandi romanzieri del Novecento: Proust e Joyce, Musil e Broch, Gadda e Bernhard.

A proposito di decostruzione. Ricordando De Man, Derrida dichiara: "Non ho mai saputo raccontare una storia". Derrida parla da fenomenologo. Si sa quale sia la preoccupazione del fenomenologo: "Andare verso le cose stesse, senza preconcezioni prestabilite". Il romanzo va verso le cose stesse del mondo della vita - che il fenomenologo distingue dal mondo della scienza - ma non in modo fenomenologico. Il romanzo non realizza, infatti, la famosa-famigerata epoché. Tranne poche eccezioni, per esempio quelle dei grandi romanzieri citati, il romanzo va verso le cose stesse con una struttura prestabilita e normalmente ben definita: la struttura narrativa. Quando afferma: "Non ho mai saputo raccontare una storia", Derrida enuncia il proprio programma fenomenologico, che pretende decostruire ogni implicita narratologia. (Chi volesse approfondire gli argomenti di Derrida può leggere il saggio di Dario Giugliano, Scrivere la decostruzione. Derrida e la privatizzazione della filosofia.)

Non diversamente dai romanzi, anche se a un livello letterario decisamente inferiore, le storie cliniche, che si insegnano a scrivere ai giovani analisti, per esempio durante le cosiddette supervisioni, sono storie romanzesche a struttura predefinita. Si potrebbero scrivere riempiendo un questionario. Il caso clinico è solo un pretesto per calarvi dall'alto la struttura dottrinaria, che si insegna nella scuola di appartenenza, affinche il giovane analista l'apprenda e possa continuare a praticarla. Il focus dell'attenzione nello scrivere un cosiddetto "caso clinico" non è il caso clinico, ma la dottrina della scuola psicoterapeutica. In ultima analisi, quello dei casi clinici è un genere letterario degenere, degenere perché finalizzato - finalizzato al conformismo, un po' come i romanzi rosa.

Le dottrine psicoterapeutiche, che si spacciano per dottrine psicanalitiche, sono moltissime. Già questo particolare le squalifica come dottrine scientifiche. Freudiane, junghiane, kleiniane, adleriane, lacaniane, ecc., differiscono tra loro per piccoli dettagli, ma ritenuti importantissimi dai rispettivi settari e difesi strenuamente dai maggiorenti delle singole scuole, perché su di essi si basa la sopravvivenza della scuola, quindi dei maggiorenti stessi. Sarebbe impossibile passarle in rassegna tutte. Tuttavia, tutte presentano un tratto che è bene segnalare nell'ambito di un discorso sulla riforma dell'intelletto, quale quella richiesta dalla psicanalisi scientifica.

Tutte le storie cliniche psicoterapeutiche sono eziologiche.

Perché? Perché il modello psicoterapeutico è ippocratico?

Certo, anche per questo. La medicalizzazione straripa nella cultura occidentale. Si estende dalla medicina e arriva a colonizzare la politica e l'economia, cioè la vita quotidiana. Ma non è solo una ragione culturale quella che impone ai romanzi psicoterapeutici di essere eziologici. C'è ancora una volta una, anzi ci sono due ragioni che giustificano la sopravvivenza delle storie cliniche all'interno delle comunità psicoterapeutiche. Si tratta di una ragione interna e di una ragione esterna alla comunità.

La ragione interna è stata già accennata. La storia clinica è un modo per controllare la formazione dei giovani. Il giovane terapeuta deve imparare a curare i pazienti come pretendono i dirigenti della scuola. Altrimenti non si può dire formato. Il caso clinico è la sua prova d'esame, che apre le porte alla professione. La pratica psicoterapeutica è sotto il controllo superegoico della comunità professionale, la quale costituisce una garanzia di affidabilità per la società civile.

(Il cavallo di battaglia dei sostenitori della legge per la regolamentazione della psicoterapia è la difesa dei soggetti deboli. Fondamentalmente un'ipocrisia. In proposito Lacan ebbe un'intuizione interessante. Lacan richiedeva, per motivi suoi non del tutto puliti, che il giovane analista presentasse alla comunità psicanalitica il "proprio" caso clinico, cioè rendicontasse la propria analisi. Si chiamava passe. Non funzionò - non poteva funzionare - per eccesso di ortodossia della commissione esaminatrice, formata dai vecchi allievi dell'Ecole freudienne de Paris, i quali detenevano e tuttora detengono un potere basato sul conformismo.)

La ragione esterna è quella più importante. Infatti, è decisiva per la sopravvivenza della scuola di psicoterapia. Il ragionamento è semplice come tutti i ragionamenti basati sullo schematismo causa/effetto. Una dottrina psicoterapeutica si presenta e si vende sul mercato come

"agente di guarigione psichica ".

Se l'agente terapeutico - in senso uguale e contrario ad "agente patogeno" o "agente infettivo" o "agente tumorale" - non agisse, o agisse una volta sì e una no, la dottrina psicoterapeutica non si venderebbe. La scuola di psicoterapia uscirebbe dal mercato della sanità e potrebbe chiudere i battenti. Se in psicoterapia vigesse un principio di indeterminazione, come in fisica quantistica, nessuno chiederebbe una formazione psicoterapeutica, per guadagnare soldi e nessuno chiederebbe una psicoterapia per guarire da un sintomo fastidioso. Ecco allora le storie cliniche chiamate a dimostrare la giusta "causa" della psicoterapia, che agisce in modo altamente deterministico come agente di guarigione, sempre e comunque. Il caso clinico è la prova d'esame della scuola psicoterapeutica in quanto tale, sostenuta davanti a tutta la società.

(Ovviamente, un discorso a parte andrebbe fatto per i primi casi clinici di Freud, che non applicano una teoria precostituita, ma tentano di costituirne una nuova).

Naturalmente, tutto ciò non ha niente a che fare con la scientificità della psicoterapia. Che non esiste (cfr. il documento Psicanalisi = Psicoterapia?). Ma i dottrinari non si preoccupano delle sorti della scienza. A loro basta esistere e vendere la propria mano d'opera "tecnica".

Mi si obietterà: "Ma se a te interessa la psicanalisi scientifica, come puoi non usare i casi clinici per verificare la teoria scientifica?"

Qui vengo alla ragione decisiva di condanna dei casi clinici.

Il caso clinico, psicoterapeuticamente inteso, non convalida un bel nulla, perché taglia via tutta la dimensione collettiva del caso, riducendolo a caso individuale. Questo può andar bene in psicoterapia, che è originariemte individualistica. Non va bene in psicanalisi dove il soggetto - come hanno dimostrato Freud, Jung e Lacan - è in modo essenziale collettivo. E non sto parlando di dimenticanza del contesto in cui il caso individuale è inserito - questo errore non lo fa più nessuna psicoterapia. (Questo errore lo fa ancora certa filosofia, prevalentemente fenomenologica, che si estenua a tentare di cogliere il soggetto in modo esclusivmante autoreferenziale). Sto parlando, invece, della dimensione collettiva, per cui chi dice a qualcun'altro "Ti amo" o "Ti odio" si muove all'interno di un rito collettivo. Di più. Il singolo si inganna sui sentimenti, da cui si lascia trasportare, come il collettivo si inganna sulle ideologie, da cui si lascia governare. Il singolo credere di amare, invece odia. Il collettivo crede di essere libero, grazie a una ideologia, invece è alienato. La psicanalisi scientifica, in quanto scienza dell'ignoranza, deve saper riconoscere e trattare entrambi i casi. (Tipico autoinganno freudiano è la credenza del bambino che la madre abbia il fallo. La credenza del popolo italiano che Berlusconi sia inviato da dio ha la stessa struttura dell'autoinganno fallico).

Come si può, pertanto, verificare una teoria scientifica della psicanalisi, dimenticando la dimensione collettiva dell'inconscio nel caso clinico? Sarebbe come se in medicina si dimenticasse l'epidemiologia di un caso infettivo, limitandosi a somministrare un antibiotico al singolo malato, mentre il soggetto veramente malato è la popolazione. (Una conferma: le malattie infettive si tengono sotto controllo con le misure igieniche, non con i farmaci.) Analogamente, dimenticando l'inconscio collettivo, si possono fare solo verifiche parziali della psicanalisi. Lo sanno bene anche i romanzieri, che non dimenticano l'equazione individuale = collettivo, inventando le loro storie. (Il punto è che gli psicoterapeuti non sono né scienziati né romanzieri).

Naturalmente, il problema della verifica delle teorie psicanalitiche va al di là della valutazione del singolo caso clinico. E' un problema per cui tuttora non siamo intellettualmente attrezzati, deformati come siamo dalle dottrine di scuola, che costituzionalmente non hanno bisogno di verifiche, essendo dogmatiche. Ma il problema del controllo sperimentale della psicanalisi resta e prima o poi dovrà essere affrontato. Sarà uno dei primi problemi che dovrà risolvere chi riuscirà a realizzare la riforma dell'intelletto auspicata da Spinoza.

Attualmente all'orizzonte non si profila nessun accenno di una simile eventualità. Pullulano invece i tentativi di rendere assoluto e categorico l'approccio individualistico. In una mail che mi arriva dalla Francia si annuncia:

"Le désir est désir d’en savoir plus sur le désir, notamment sur ce qui le met en marche et sur ce qui le maintient. Le désir est poros, ouverture: il ouvre l’interrogation sur ce qui est propre à chacun, sur la singularité de tout sujet".

Alle spalle di queste romanticherie c'è Goethe, secondo cui il vero universale è singolare. Ma su questa forma di narcisismo teorico credo che il discorso scientifico abbia finalmente apposto la parola "fine".

Per chi volesse approfondire l'argomento rimando al mio contributo comparso sul numero di "aut aut", 318, 2003, pp. 83-87, dedicato alla bioetica, tuttora basata sulla casistica, intitolato

La difficoltà del caso.

Concludo la pagina con una considerazione di ordine estetico sulla natura del romanzo, che mi consente di recuperare in corner il lacanismo, salvando altresì il Freud delle novelle.

L’arte come mimesis da Platone in poi. L'arte copia la realtà o l'idea della realtà? Vecchia questione in cui non oso addentrarmi. In ogni caso riconosco che l'arte mira a una sua oggettività. Con una precisazione fenomenologica: oggettivo è ciò che è intersoggettivo. Il pittore non copia la realtà. La presenta come la vedrebbe l’altro, nel caso il fruitore del quadro. Il romanziere non è realista – neanche Balzac – ma descrive la realtà come il lettore pensa (o pretende) che sia. “Il pensiero dell’altro”, il cogito “cogito ergo sum” ergo sum, è lo schematismo dell’artista – Bernhard è il maestro di quest’arte. Si intende che l’io fa parte dell’altro.

Del cogito del cogito, da intendere come struttura del romanzesco moderno, che diventerebbe così l'ombra dello scientifico, fondato sul semplice cogito, ho parlato in una breve nota su Bernhard, Goethe smuore, ovvero lo sromanzo, pubblicata su "aut aut", 325, 2005. pp. 92-95.

Dal cogito del cogito al desiderio come desiderio dell’altro il passo è breve. Lacan fonda la psicanalisi sul romanzesco. Da intendere come doppio dello scientifico.

Non mi sto rivestendo con le penne del pavone. L'analisi fenomenologica (logocentrica) del cogito del cogito, con le opportune virgolette sul secondo, posizionato per primo, si trova già in Lacan. (Cfr. J. Lacan, L'instance de la lettre dans l'inconscient ou la raison depuis Freud - 9 maggio 1957, discorso pronunciato nell'anfiteatro Descartes della Sorbona, là dove il 23 e il 25 febbraio 1929 Edmund Husserl tenne due conferenze sul senso e sull'essenza della fenomenologia dal titolo Introduzione alla fenomenologia trascendentale, poi confluite nei Discorsi parigini, prima stesura delle più sistematiche Meditazioni cartesiane -, in J. Lacan, Ecrits, Seuil, Paris 1966, p. 516.)

Per completezza e per facilitare la comprensione delle mie elucubrazioni su Bernhard e il romanzesco allego una mia traduzione del testo di Bernhard Goethe "muore" e alcune mie divagazioni in tema di teoria del romanzo, formulate al salotto letterario di Roberto Caracci nell'ottobre del 2005.

*

Ancora contro i casi clinici.

I casi clinici sono scritti per confermare la dottrina vigente. Ma in epoca scientifica le conferme non servono a molto. Per considerazioni sia logiche sia probabilistiche, in ambito scientifico sono più utili le confutazioni.

Dal punto di vista logico, se la causa A produce l’effetto B, dall’indizio B non puoi risalire alla causa A. Eppure tutti gli interpreti e tutti i commentatori della dottrina ufficiale commettono questo errore logico. Resta valido il principio del tollendo tollens, su cui si basa la confutazione scientifica. Se la causa A implica l'effetto B, ma non si verifica B, allora non ha agito la causa A.

Dal punto di vista probabilistico le coincidenze casuali si sprecano. Disposte 13 carte del seme di picche in ordine casuale, in media una va al suo posto nell’ordinamento normale. Ottenere almeno una coincidenza su 13 è dell’ordine di 2/3. Dal punto di vista probabilistico una qualunque eziologia è confemata a priori, cioè prima dell'osservazione empirica, almeno due volte su tre. Non è difficile vaticinare eziologie.

Dal punto di vista statistico l'accumulo di dati a favore di un'ipotesi si limita a precisarla senza corroborarla. Per esempio, rende minore la variabilità campionaria di una media stimata (variabilità misurata attraverso il suo errore standard), ma non dice se la stima è in assoluto quella giusta e incontrovertibile. Infatti, nella procedura di rilevazione dei dati potrebbero nascondersi errori sistematici che passano inosservati all'analisi ex post.

Ma, da medico qual era, Freud non era avvezzo a trattare errori sperimentali. Non aveva la minima cognizione della variabilità spontanea dei fenomeni naturali. Tanto meno concepiva che alla base della variabilità dei rilievi ci potesse essere un meccanismo aleatorio. Per lui, come per tutta la scienza ottocentesca, meccanicismo significava determinismo. La stocastica – Markov fu suo contemporaneo – per Freud semplicemente non esisteva. Perciò rifiutava aprioristicamente la casualità degli eventi psichici. Tutte le coincidenze avevano per lui il significato di effetti precisi determinati da cause precise. La ripetizione era per lui ripetizione dell'identico. Non sapeva riconoscere simmetrie e invarianze nella ripetizione del diverso. Così nel suo Leonardo Freud affastellò coincidenze nelle varie mitologie mediterranee (egizia, greca, romana) sul significato materno del nibbio (Geier) a conferma del proprio pregiudizio sull’omosessualità di Leonardo. L’idiozia freudiana non fu aver sbagliato la diagnosi di omosessualità nel caso di Leonardo – tutti possono sbagliare –, ma aver adottato in epoca scientifica il metodo interpretativo – la scienza dell'uccello – in voga ai tempi degli auguri romani.

*

Lettera aperta al dottor Viganò

Caro Carlo Viganò,

ho riflettuto sulla tua idea “il caso singolo è il laboratorio”. Mi convince sì e no. Nel lontano 2003, per un fascicolo di “aut aut” sulla bioetica, ho scritto il saggetto che ti allego, intitolato non a casoLe difficoltà del caso”. La difficoltà delle scienze a trattare i casi singoli è strutturale e praticamente ineliminabile. Dipende dal fatto che esse trattano in primis la variabilità, cioè non casi singoli ma classi di casi diversi, non il singolare ma il plurale. Addirittura, la matematica moderna, nella forma algebrica della teoria delle categorie, tratta classi senza considerare gli elementi che le compongono, ma analizzando solo le leggi di trasformazione di una classe nell’altra e le loro proprietà. Certo, la medicina tratta casi singoli. Perciò temo che rimettere sul tavolo la questione del caso singolo sia un modo surrettizio di reintrodurre nel discorso psicanalitico la dimensione medica, che tanto gli ha nuociuto. Questo è un rischio da non sottovalutare. Quello medico è un discorso forte, rodato da millenni di predominio culturale e difficile da smontare. Soprattutto è un'idra di Lerna: ne accetti un frammento e ti si riforma tutto intero sotto gli occhi senza che tu lo voglia.

Di solito succede così: parti dal caso singolo e, poiché non puoi applicare a un singolo caso gli strumenti della statistica per valutare la correlazione causa-effetto, sei costretto a richiamare il principio di ragion sufficiente per “spiegare” (deuten) gli eventi della singola evoluzione storica. A quel punto la frittata è fatta. La "scienza medica" – che non è una scienza – che credevi di aver buttato via dalla finestra, è già lì sulla porta di casa con tutto il suo oppressivo bagaglio eziopatogenetico, pronta a costruire classificazioni nosografiche dove, guarda caso, il singolo, inizialmente convocato, alla fine scompare.

Tutto ciò premesso, collaborerò volentieri alla tua rivista on line, intitolata proprio case studies, che si propone di trattare casi medici, giudiziari, psicanalitici e storici, se accetti una voce critica – magari un po’ dissonante rispetto alla tua impostazione. Potrei per esempio preparare un contributo sulla differenza tra le due aree semantiche del significante “caso”:

da una parte, l’area antica, prescientifica, quella dove domina il caso singolo (riprendendo, per esempio, il discorso sulla sincronicità di Jung, che – non sembra – era più scientifico di Freud) e, dall’altra parte, l’area moderna, scientifica, quella dove emerge la dimensione della casualità con il relativo calcolo delle probabilità, che solo nel XVII secolo, con l’avvento del discorso scientifico, ha cominciato a essere formalizzato da gente come Galilei, Pascal, Fermat, Huygens, con continuatori eccellenti nel secolo successivo come Bernoulli (tedesco, inglese), Bayes (italiano) e altri fiori di zucca (ossia belle teste).

– Allora i case studies non hanno alcun valore in ambito scientifico, secondo te?

– I case studies hanno grandissimo valore. Servono da controesempi per smantellare le teorie vigenti. Basta un caso singolo, un singolo controesempio, per distruggere tutta una teoria. Questo perché in logica, come dicevo sopra, vale il principio del modus tollendo tollens. Se A implica B, e si verifica non B, allora è vero non A, cioè è falso A.

– Ho capito. La follia di Hölderlin sarebbe il controesempio  che falsifica la teoria lacaniana della genesi della psicosi a causa della fuorclusione del nome del padre dal registro simbolico, perché Hölderlin sarebbe un caso di follia senza fuorclusione del nome del padre. Un argomento del genere ricorre persino nell’ultimo scritto di Lacan, L’Etourdit.

– Non è esattamente così. Anzi è proprio il contrario. Lacan aveva una competenza logica sui generis. Bravo nella fenomenologia soggettiva del ragionamento logico, debole nella formalizzazione. Un autentico controesempio per la teoria lacaniana sarebbe un caso di assenza di follia in presenza di fuorclusione del nome  del padre.

– Ma, allora, non c'è bisogno di andare a cercare molto lontano. La vita di tutti i giorni è la confutazione quotidiana della teoria della fuorclusione. I nostri politici vivono fuori dal regime simbolico del nome del padre, ma non sono folli (o sono tutti folli?). Si ritrovano il padre nel reale, reincarnato dal leader, ma non vanno (quasi) in delirio. Nessun psichiatra prescriverebbe un trattamento sanitario obbligatorio per un fan di Berlusconi. Infatti, non delira, in genere. Si limita a ripetere discorsi vuoti. Un vecchio psichiatra come me li classificherebbe come deliroidi o fatuità. Più folli di loro sono certi psicanalisti quando cominciano a pontificare dall'alto delle loro dottrine, usando gerghi incomprensibili, vere e proprie insalate di parole. Una volta udii un esimio allievo di Lacan parlare di "fuorclusione della mancanza ad essere"! Sembrava di sentir parlare uno schizofrenico.

– L’esempio non è proprio ben trovato.

– Hai ragione. Il difetto mi pare stia nel manico, cioè nella logica. La relazione di implicazione è un cattivo modello di relazione causa-effetto. Purtroppo, si tende a pensare la relazione di causa-effetto come relazione di implicazione: la causa implica l’effetto.

– E' vero. Questo è un errore metodologico.

– Allora, ho un problema: come si falsifica il principio di ragion sufficiente?

– Il principio di ragion sufficiente non si falsifica per via empirica ma per via di principio, come esige il suo nome. Devi costruire un’epistemologia dove non vale o dove è sospeso.

– Come?

– Come fece David Hume, cui ti rimando, o come si fa in questo sito, elaborando una logica congetturale, che privilegi la dimensione epistemica e temporale dell'argomentazione logica. In questo sito, come sai, privilegio la logica intuizionista di Brouwer rispetto alla classica di Boole e con sforzi erculei riesco a tenere a bada quell'idra di Lerna – la "scienza" medica – che vorrebbe carpirmi quel briciolo di scientificità che tento di restituire alla psicanalisi.

Tuttavia... Perché non vai a leggere la pagina A favore dei casi clinici.

*

Un'ultima considerazione contro i casi clinici mi è stata suggerita dall'elaborazione teorica sulla struttura della clinica, che stanno portando avanti Pierrette Lavanchy e Giampaolo Lai. I quali introducono nella pratica clinica considerazioni probabilistiche, mutuate dalla teoria delle catene di Markov. Ogni singola seduta psicanalitica è influenzata al più dalla precedente, ma non da altre precedenti. Lo svolgimento della cura è un'operazione che dipende meno dal carico del passato e più dalla progettualità per il futuro. Quindi non ha senso ricostruire il caso ab ovo, cioè a partire dalla sua origine, per altro sempre mitica.

Questi due autori sono secondo me interessanti, perché tagliano definitivamente il cordone ombelicale, che, per la via di Ippocrate, lega Freud al determinismo classico, intendo quello esposto da Aristotele nel De interpretatione (cap. 9) a proposito della battaglia navale, argomento noto come dei "futuri contingenti".

Per Aristotele affermare: “Domani o ci sarà una battaglia navale o non ci sarà”, era necessariamente vero in base al principio del terzo escluso; quindi, il giorno dopo, un evento doveva necessariamente verificarsi: o si doveva verificare la battaglia o si doveva verificare l'assenza di battaglia. La battaglia era sin da oggi o necessaria o impossibile. Il contingente, inteso come né impossibile né necessario, era per Aristotele impensabile. Perciò per gli antichi la vera scienza era la conoscenza del passato, cioè la storia; per quanto riguardava il futuro, esercitavano l’arte della predizione, attraverso oracoli e auguri, ma non conoscevano la scienza delle previsioni; la metereologia non esisteva. (Per la differenza logica tra predizione e previsione rimando al notevole lavoro di Bruno de Finetti, che insieme a Savage, propose la seguente definizione di probabilità soggettiva: "la probabilità di un evento è il prezzo che un individuo ritiene equo pagare per ricevere 1 se l'evento si verifica, 0 se l'evento non si verifica.")

Allora, trasponendo l'argomento aristotelico al caso clinico – il soggetto o svilupperà una nevrosi o non la svilupperà – si capisce come Freud sia stato costretto a supporre all'origine del romanzo familiare del nevrotico una scena primaria mitologica o una scena sessuale infantile o un fantasma, in termini lacaniani, da cui dedurre necessariamente i sintomi della nevrosi e la loro eventuale dissoluzione grazie alla psicoterapia. La costruzione del "caso clinico" (Krankgeschichte, storia della malattia) è in buona parte fasulla, perché presuppone una necessaria "legge della storia individuale", che concatena il fantasma ai sintomi e alla loro dissoluzione, esattamente come Hegel presupponeva una necessaria legge della storia dello spirito o Marx una necessaria legge dello sviluppo della coscienza di classe. Le leggi necessarie non esistono in realtà, ma solo nella testa dei medici, dei giudici e di qualche filosofo compromesso con il potere. La scienza moderna non si fa con la necessità ma con la contingenza, quantificata sotto forma di probabilità.

Con il discorso scientifico è arrivata l'ora di mettere in soffitta le leggi della storia sia individuali sia collettive e insieme a loro i casi clinici e i casi politici. (A proposito di politica, noi in Italia abbiamo avuto il funesto caso di Berlusconi premier: era forse predeterminato da qualche provvidenza storica? Mi rifiuto di pensarlo).

In questa ottica scientifica moderna il resoconto clinico si riduce all'individuazione e alla descrizione di particolari interazioni terapeutiche "locali" tra paziente e analista, tra compratore e venditore di beni di parola, che non si riassumono in un disegno "globale", comprendente l'intera "storia clinica". Come non esiste un disegno intelligente alla base dell'evoluzione darwiniana (tra parentesi, il termine evolution NON è darwiniano; infatti, evolution NON ricorre nelle 600 pagine dell'Origine delle specie; Darwin fu un attentissimo epistemologo, sicuramente più attento di Freud; non si può accusare Darwin di finalismo, mentre il Freud della pulsione di morte e fortememente teleologico), così non esiste un quadro clinico in base al quale si possa a posteriori giustificare una guarigione in psicanalisi. Detto alla Nietzsche: "non esiste guarigione (Heilung), ma solo convalescenza (Genesung)", guadagnata un po' alla volta, giorno per giorno. Ciò non toglie che nelle scuole ortodosse di psicanalisi ancora oggi si richieda al giovane candidato di esporre davanti a una commissione di geronti e di presbiteri un paio di casi clinici da lui trattati secondo le regole della scuola. Anacronismi.

Tuttavia, questi anacronismi sono attualissimi, essendo insediati nel senso comune che, per spiegare tutto, non può fare a meno di supporre un disegno globale, sotteso al mondo. Il determinismo è un atteggiamento ben radicato nell'intelligenza cognitiva, di cui forma il nucleo paranoico. (Perciò il cognitivismo non è scienza). Lacan ripeteva che non c'è conoscenza che non sia paranoica – e di paranoia se ne intendeva dai tempi della sua tesi di specialità.

Mi spiego con un aneddoto. Il signore accanto a me in metro sta giocando a Free cell sul suo smartphone. La partita non gli riesce e sta chiudendo il gioco per apprestarsi a scendere. Io mi decido a intervenire:

"Sa che una congettura non ancora dimostrata sostiene che a Free cell si può vincere sempre?"

"Sì".

"Allora, io preferisco giocare a Spider, che mi riesce una volta su sei". (Recentemente ho abbassato il record).

"Oh, non c'è niente da fare; è tutto precalcolato". E scende sorridendomi.

Ecco cos'è il determinismo: al mondo tutto è calcolato prima. Non c'è storia, anzi c'è una sola storia, quella stabilita dalla Divina Provvidenza. E' dura a morire la mentalità determinista, forse perché è ultimamente religiosa. Persino in meccanica quantistica, la teoria di Bohm delle variabili nascoste, ha tentato di estromettere l'indeterminismo dalla fisica. "E' una bellissima teoria", sosteneva Bell, proponendo le sue disequazioni, che una volta confermate sperimentalmente da Aspect seppellivano definitivamente l'ultimo avatar scientifico del determinismo. Oggi sappiamo che esiste telepatia tra particelle, le quali comunicano tra loro in un modo che non è calcolabile prima. E' ancora Lacan a dirlo a modo suo: esiste un sapere nel reale (Lettera agli italiani, 1974).

Insomma, anche in psicanalisi, come in ogni altra scienza, abbiamo a che fare con il contingente indeterministico. Cari colleghi psicanalisti, dobbiamo rassegnarci a perdere un po' di onnipotenza, quella che ci fa credere di poter curare le nevrosi con le nostre magie... deterministiche, calcolate prima una volta per tutte.

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